Ottobre 18, 2017

Diario di un disperso a Cannes, volume II

By In Artismi & Minculpop

Secondo giorno di MIPCOM e altro giro di giostra: ho paura di starmi abituando. Ieri, avendo apprezzato l’esperienza della première di lunedì, mi sono lasciato ingolosire come il più curioso dei bambini e ho voluto raddoppiare e ho incautamente assistito a ben due anteprime di serie TV previste per il 2018. La mattina di attesa è comunque passata in fretta grazie alle spaventosi doti da domatrice di leoni di Catherine Zeta-Jones: l’attrice gallese, in occasione della presentazione del suo nuovo film per la TV Cocaine Godmother (un ritorno al piccolo schermo da protagonista dopo diciotto anni), ha impartito ai presenti una delle più grandi dimostrazioni di controllo della folla attraverso il puro carisma che si possano vedere – e, per inciso, questa risposta femminile a Narcos non sembrava neanche malvagia, a giudicare dal trailer.

La portata principale, però, è arrivata nel pomeriggio: prima l’anteprima di The Plague/La Peste e poi Trotsky, la punta di quello che da queste parti ci si aspetta diventi un vero e proprio iceberg (ossia una sorta di “invasione di massa” del MIPCOM da parte dei nuovi contenuti narrativi di alta qualità che la televisione russa ha iniziato ha produrre da un po’ pensando anche, e forse soprattutto, al mercato estero).

The Plague è una specie di thriller claustrofobico in costume, ambientato nella Siviglia del 1580 circa. Tutta la vicenda ruota attorno all’arrivo della peste proprio nel periodo di massimo splendore della capitale andalusa e al contemporaneo ritorno in città di Mateo, l’irsuto protagonista della vicenda. La produzione ha investito qualcosa come 1.800.000 euro a puntata nel progetto e l’imponenza del budget si nota in ogni aspetto della realizzazione, dalla fotografia che tende a restituire più che può la sensazione della luce naturale agli eccezionali costumi.

La scrittura è molto nervosa e sanguigna, quasi brutale, e coniuga uno spirito molto iberico con l’assimilazione perfetta della lezione di Game of Thrones: il concetto di buono e cattivo nei personaggi è completamente superato, gli eventi che scandiscono l’avanzare della narrazione non sono mai edulcorati e, anzi, tutto è reso con più realismo possibile, al punto che più di una scena risulta anche decisamente sgradevole. Il ritmo è costante ma non elevatissimo perché la regia – giustamente – cerca di valorizzare al massimo la Siviglia cinquecentesca che fa da sfondo alla vicenda e quindi si prende qualche licenza estetica per alleggerire il tono greve dell’opera. Nonostante sia solo il primo episodio, qualche sbavatura di sceneggiatura si nota già, tipo comportamenti poco coerenti con le premesse date a un personaggio o qualche piccolo buco logico, ma non disturbano eccessivamente la visione.

Per stessa ammissione del regista, l’obiettivo era una rappresentazione che fosse il più fedele possibile alla realtà storica della vita cittadina, specialmente di strada. Da qui arriva il realismo a tratti spietato del racconto che sicuramente avvince ma contemporaneamente stanca lo spettatore, specie considerando che la vicenda è intricata e complessa fin dall’inizio. La scelta di produrre una stagione da soli otto episodi è vincente, ammesso e non concesso che tutte le puntate siano buone come la prima: la visione di The Plague può essere impegnativa, data la sua estrema crudezza, e tirarla in lungo avrebbe solo fatto male alla serie. In estrema sintesi: il prodotto è certamente valido ma senza dubbio va sconsigliato ai teneri di cuore, a chi non riesce a fare a meno dei contrasti di chiara comprensione buon/cattivi, a chi guarda la TV per “spegnere il cervello”, a chi ama identificarsi coi protagonisti positivi di una serie, a chi non vuole rinunciare a una certa dose di buoni sentimenti. Per tutti gli altri, via libera.

Trotsky, invece, è stata per me una rivelazione quasi sconvolgente. Non è un mistero che dalla Russia non fossero mai arrivate delle serie di gran successo, perlomeno in Italia (strano ma vero, gli USA sono tra i maggiori acquirenti dei prodotti russi e non l’Europa). A oggi, per dirne una, c’è una sola serie russa su Netflix e peraltro solo sulla versione americana della piattaforma. Mi sono accostato alla proiezione della puntata pilota con tanta curiosità e altrettanta prevenzione, aspettandomi una produzione magari ambiziosa, magari ben scritta, magari anche ben recitata ma probabilmente raffazzonata nella realizzazione tecnica a causa di un budget non troppo alto. Gravissimo errore.

Su Trotsky è stato palesemente investito un gran bel capitale e si capisce anche solo dalla fotografia veramente incredibile, che resta tale anche se paragonata a quella vista anche in produzioni di alto e altissimo livello come The Plague e Britannia. I colori esplodono letteralmente e fanno da meravigliosa cornice a tutte le sequenze, specie quelle col montaggio più “artistico”, dove la regia deve restituire allo spettatore le sensazioni del flashback o dell’alienazione mentale. Gli attori sembrano essere tutti estremamente in parte e francamente bravissimi, specie l’azzeccatissimo protagonista, Konstantin Khabensky, a cui tocca interpretare Trotsky in tre diversi momenti della sua vita: da giovane, da uomo adulto all’apice del suo successo e da anziano, ormai in declino. Le sfumature del suo personaggio cambiano pur restando visibile una coerenza essenziale di fondo che lega assieme le tre anime del rivoluzionario, il quale sembra essere sempre sé stesso ma, giustamente, pure connotato in maniera consona con l’età e le esperienze rappresentate in quel momento del racconto.

La sceneggiatura è semplicemente fenomenale: il ritmo del racconto è velocissimo e sorprendentemente semplice da seguire nonostante i continui balzi temporali lungo l’arco della vita di Trotsky che, poi, è ovviamente il tema principale della serie. I movimenti di macchina sono tutti studiati fino allo spasmo e si regalano più di un virtuosismo qua e là ma senza mai sembrare gratuiti, anzi: paiono sempre funzionali alla narrazione. Visto che ai produttori della serie piaceva esagerare, non è mancata l’aggiunta di qualche effetto speciale più vistoso della media qui e là nonostante la natura realistica dell’opera.

Alla fine della fiera, Trotsky è praticamente un biopic all’americana diviso su più puntate e, in modo molto opportuno considerando la natura del personaggio, il protagonista è dipinto come una rockstar, né più, né meno. Coi suoi eccessi, con la sua ambizione bruciante, con i suoi talenti e le sue miserie ma stiamo pur sempre parlando di un uomo che, ai suoi tempi, trascese il suo ruolo politico-gerarchico e divenne quella che oggi definiremmo “icona pop”, anticipando di diversi decenni la mitologia di Che Guevara che, probabilmente, è quanto di più simile esista rispetto all’epica trotskista degli anni venti e trenta. E questo, guardando la serie, si respira perfettamente.

The Plague è una coproduzione Sky/Movistar e arriverà anche da noi, prima o poi, mentre per Trotsky c’è da sperare che qualche illuminato di casa nostra si compri i diritti. E se non dovesse accadere ci perderemmo qualcosa.

*****

Il primo volume del Diario di un disperso a Cannes.

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