Settembre 4, 2017

White Hart Dane

By In Football, Innamoramenti

L’orologio scandisce lo scorrere del tempo. Una volta, saperne leggere il quadrante distingueva i ragazzini già un po’ cresciutelli rispetto ai bambini più piccoli: alle elementari solo i più grandi del quarto o quinto anno avevano quell’affare tondeggiante sul polso.

In realtà è già da tantissimo tempo che la capacità di leggere l’orologio ha smesso di avere una funzione centrale nel corso dello sviluppo dell’essere umano medio, ma solo le lancette analogiche riescono a restituire così bene quella sensazione secondo cui sembra che il tempo abbia un suo ritmo mistico interno. Un ritmo che non è sempre uguale e che si diverte ad accelerare o rallentare, tendenzialmente andando al contrario della velocità che ci servirebbe in quel frangente.

Chi pensa che nessun essere umano sia in grado di controllare il flow proprio del tempo che scorre non ha mai visto Christian Eriksen e, in particolare, non ha mai visto Christian Eriksen su un campo da calcio.

Eriksen nasce calcisticamente nei Paesi Bassi ed è a tutti gli effetti un prodotto del settore giovanile dell’Ajax, essendosi trasferito in Olanda dall’Odense a soli sedici anni (ma già da teenager era considerato un prospetto di sicuro valore): qualche anno fa è stato lo stesso trequartista a raccontare di aver sostenuto un provino per il Chelsea nel 2006, ad appena quattordici anni, due stagioni prima di raggiungere Amsterdam. Non se ne fece nulla perché il giovanissimo Christian non era dell’idea di compiere un passo così grande a un’età così verde. Scelse solo in seguito di andare all’Ajax perché attratto dalla mentalità dei Lancieri, dall’attenzione olandese alla formazione dei calciatori e dalla vicinanza geografica e sociale dei Paesi Bassi alla sua Danimarca.

Del resto, il tempismo con il quale ha deciso le tappe della sua carriera fin qui potrebbe essere considerato una sorta di benchmark della sua storia personale, il metatesto che definisce Christian Eriksen come professionista e calciatore. Ha sempre privilegiato club che potessero in primo luogo dargli spazio e insegnargli qualcosa. Da qui la scelta dell’Ajax, da qui il rifiuto di trasferirsi al Manchester City, all’Arsenal o al Liverpool, tutti club che lo hanno cercato nei suoi anni all’allora AmsterdamArenA ma – secondo lui – sempre troppo presto. Già sei anni fa c’erano squadre inglesi di prima fascia che lo volevano ma il danese ha sempre respinto le proposte per poter rimanere in Olanda e finire il suo percorso di formazione.

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Ammutolire uno stadio in 3, 2, 1…

Una volta a White Hart Lane, Eriksen ha raccontato più volte del perché abbia declinato offerte apparentemente lusinghiere, come per esempio quella del City: «Mi hanno cercato a lungo durante l’estate del 2012 ma non mi sembrava il momento giusto per lasciare l’Ajax. Quell’anno hanno lasciato la squadra in tanti e rimanere mi ha dato la possibilità di crescere, di prendere più responsabilità. Tutto ciò mi ha reso migliore. […] Forse a Manchester non avrei nemmeno giocato. Non andrei mai in una squadra solo per stare in panchina. Poi non mi sentivo pronto per la Premier League allora, penso di essere arrivato al Tottenham nel momento giusto. Vedremo alla fine della carriera se ho scelto bene». Ancora prima, nel 2011, il trequartista aveva spiegato così la sua scelta di rifiutare il Liverpool: «Penso che rimarrò ad Amsterdam per tutta la durata del mio contratto. Ho ancora tanto da imparare e migliorare, qui posso farlo perché l’Ajax è uno dei posti migliori dove si può sviluppare il talento. Sotto questo aspetto non potrei essere in un club migliore».

La scelta degli Spurs è in questo senso perfettamente in linea con la sua visione: nel 2013, quando è arrivato a Londra, il Tottenham era un ambiente in piena rivoluzione dopo la cessione di Bale ma anche traboccante di ambizione, non scalfita dalla cessione dell’uomo simbolo gallese. Era uno dei club che offrivano al danese più garanzie di giocare, in panchina c’era un visionario come Villas-Boas e il nucleo della squadra era tendenzialmente giovane. La garanzia della titolarità, la possibilità di migliorare ulteriormente, la presenza ormai stabile nelle coppe europee, la voglia di praticare un gioco offensivo, creativo e stimolante. Nella decisione di andare a Londra c’è tutto Eriksen, la sua totale assenza di fretta e soprattutto la voglia di crescere in maniera organica, passo dopo passo, senza bruciare le tappe, coi tempi più giusti, col primo pensiero sempre e comunque rivolto alle chance di giocare stabilmente.

Questo aspetto della sua personalità emerge ovviamente anche sul campo e si riflette nel suo modo attuale di giocare: fare le cose giuste nel momento giusto, senza fretta. Può sembrare molto banale ma è il principio base dello stile di gioco del centrocampista offensivo danese. Johan Cruijff diceva che giocare in modo semplice è la cosa più difficile del mondo; Eriksen, con la sua tecnica raffinata ma essenziale, incarna perfettamente l’idea del leggendario 14 di un calcio semplice, senza arzigogoli o numeri da circo ma bello ed efficace. Ciò rende il danese uno dei prodotti definitivi del vivaio ajacide degli ultimi anni.

Lo stop, il controllo, la naturalezza dell’ambidestria, il modo in cui orienta il corpo nel tiro o nel passaggio: tutto parla di scuola olandese e, in generale, mitteleuropea, guardando ai fondamentali del numero 23 del Tottenham. Eppure non è un calciatore particolarmente sponsorizzato dal grande pubblico o che goda di stampa particolarmente buona, il che è strano. Probabilmente è dovuto non solo al relativo fascino della piazza in cui opera attualmente ma anche al fatto che la sua sobrietà tecnica porta spesso, se non a sottovalutarlo, quanto meno a darlo per scontato. Pochissimi frizzi, ancor meno lazzi: il buon Christian è il contrario dell’appariscenza, quando si parla di trequartisti creativi. Fosse nato dieci anni prima, sarebbe stato il perfetto “anti-Ronaldinho”, una sorta di immagine speculare del Gaúcho.

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Tecnica pulitissima ma assassina

Eriksen è quello di cui tutti dicono che è bravo non appena ne si fa il nome ma che non viene in mente a nessuno quando si parla dei centrocampisti d’élite d’Europa. Sbagliando, con tutta probabilità. Ma quell’aria da primo della classe un po’ slavatino magari non gli consente di colpire troppo l’immaginario collettivo, chissà. Di fatto, solo chi ha occasione di osservarlo ogni settimana pare completamente consapevole del suo valore.

Ancora negli anni di Eredivisie, il giocatore danese è maturato esponenzialmente, evolvendosi  e cambiando in modo armonioso: nato come mezzala in grado di fare entrambe le fasi ma particolarmente talentuoso nella metà campo avversaria, Eriksen ha via via diminuito le corse all’indietro per stazionare più stabilmente nella trequarti, prendendo su di sé, partita dopo partita, sempre più responsabilità a livello di creazione di gioco. Non nasce trequartista ma lo diventa nel tempo, spinto dalle sue inclinazioni naturali (che lo portano alla gestione del pallone) e dalla visione di de Boer, che gli affida le chiavi della squadra già al suo primo anno da titolare.Anno dopo anno, Eriksen diventa il playmaker dell’Ajax, prima offensivo poi praticamente a tutto campo. La posizione di partenza non conta quasi più, dovunque sia ragiona da regista.

Questo è un aspetto del suo pensare calcio che si è portato integralmente dietro al Tottenham e che Pochettino ha cercato di valorizzare in tutti i modi, tant’è che ha fatto cambiare al danese fino a quattro posizioni lungo l’arco di un match, ovviamente sempre a seconda delle esigenze della squadra in quel dato momento. Quel che preme al tecnico argentino è che il vecchio Christian sia sempre nel vivo della manovra, poi l’aspetto “geografico” gli interessa fino a un certo punto. Del resto, l’aumento della distanza tra sé e l’area avversaria non è un problema per il 23 degli Spurs; più passa il tempo e scorrono le stagioni, più Eriksen è sicuro di sé: che siano cinque metri o venticinque, il suo filtrante arriva a destinazione. E non è certo il dinamismo a mancargli se poi è proprio lui che deve attaccare la porta con la corsa.

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Movimento e finta da antologia

Spesso si dice dei registi che sono come un direttore d’orchestra: nel caso di Eriksen non ci potrebbe essere una definizione più precisa. Legge azioni e transizioni come se fossero uno spartito e sembra sempre sapere già cosa verrà dopo. Questa consapevolezza lo porta a sentire la musica della partita dentro di sé e quindi adeguare il suo ritmo allo svolgimento del match, coniugandolo anche a quello dei compagni. A inizio carriera, nell’Ajax, sembrava sbucasse fuori da ogni angolo del centrocampo grazie alla sua capacità di leggere la gara supportata da buon dinamismo e dalla capacità di corsa; oggi il suo essere ovunque è, se possibile, ancora più puramente tattico: sa dove mettersi per ricevere il pallone così come capisce prima degli altri dove potrebbe finire e si fa trovare già lì, già pronto per la giocata successiva (che ha anche già visualizzato). Negli anni ha come imparato a nascondere la sua corsa senza palla: lo si trova un po’ dappertutto sulla trequarti ma senza veramente vederlo muoversi; il suo fluttuare sul campo nella fase di non possesso è quasi ectoplasmico.

L’aspetto più inquietante della sua capacità di coniugare il ritmo della partita col suo e quello dei compagni sono, ancora una volta, i passaggi. Spesso si dice di un bel suggerimento che è fatto col contagiri o col goniometro. Con Eriksen non è tanto la precisione geometrica che resta in testa, quanto più l’adattamento quasi sempre perfetto dei suoi palloni al momento cinetico del compagno. Il danese sa recapitare la sfera in modo tale che il ritmo del compagno non ne viene mai spezzato ma, anzi, rinforzato: quando serve un pallone sulla corsa, il compagno deve solo proseguire la sua azione et voilà, la giocata è compiuta. Allo stesso modo, quando gli tocca effettuare l’ultimo passaggio, sa recapitare la sfera esattamente dove è meglio che avvenga l’impatto con la coordinazione del giocatore accorrente. Anche per questo è un formidabile battitore di calci d’angolo.

La sua conoscenza dello spartito della gara è tale che chi lo guarda, nel 90% dei casi, ha la netta sensazione di essere in grado di poter predire quel che farà non appena avrà il pallone e, puntualmente, azzecca. Proprio come accade quando si assiste all’esecuzione di una sinfonia già conosciuta in ogni sua nota. Si conoscono i momenti di crescendo, si ricorda perfettamente la sequenza dei movimenti e quando arriva il climax: con Eriksen è lo stesso. Si sa già cosa succederà ma – quando succede – funziona perfettamente perché la sua esecuzione è talmente in ritmo con lo svolgimento del gioco che ci si può fare ben poco. Anche se lo si legge con anticipo, ci si arriva sempre con un ritardo fatale. Le cose giuste al momento giusto, ogni volta, ancora e ancora.

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Un già classico “Eriksen to Kane”

Al Tottenham i compagni lo hanno capito perfettamente e ne sfruttano le capacità il più possibile. Sanno che se corrono in avanti coi tempi corretti lo scatto sarà premiato, che se si smarcano efficacemente saranno serviti, che se si inseriscono alle spalle del difensore si troveranno il pallone tra i piedi. Al di là dell’esempio Kane, il più evidente e semplice da fare, va notato come lo assecondino i terzini nelle sovrapposizioni in fascia o anche i difensori centrali e Dier, specialmente sui calci piazzati: hanno tutti la certezza che se fanno il movimento giusto la palla arriverà a destinazione.

Dopo quattro anni di Premier League e, insieme col Tottenham, essere tornato stabilmente a giocare la Champions League, Eriksen è un giocatore nel pieno del suo prime, ha 25 anni, ed è perfettamente formato. Resta solo una domanda: vista la carriera intera vissuta all’insegna del tempismo, sia dentro che fuori dal campo, sarà giunto il momento giusto per la consacrazione definitiva?

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