Whatever Anime Night è la rubrica a cadenza totalmente variabile che prende in esame i cartoni giapponesi che mi capita di guardare. Cercherò di valutare un’opera nel suo complesso il più delle volte, chiaramente per quanto possibile, aspettando che si concluda in modo da dare un giudizio completo. Altre volte, invece, parlerò di roba che non è finita di per sé o che io non ho ancora finito. Altre volte ancora toccherà invece a serie che non vorrò finire mai nemmeno per tutto l’oro del mondo. Insomma, tutto ciò per dire che Whatever Anime Night è la rubrica di Stream Of Footballness in cui io giudico anime senza che nessuno me l’abbia mai chiesto. E sì, il titolo ricalca il contenitore di MTV di mille anni fa al cui interno venivano trasmessi i cartoni giappi che Mediaset non osava mandare in onda perché troppo abrasivi secondo i poteri forti (o così dicono i beninformati). Oggi tocca a Seven Deadly Sins.
Prima di iniziare questo pezzo ho controllato e, in effetti, Wikipedia parla di Seven Deadly Sins, non de I Sette Peccati Capitali. Dunque il nome ufficiale del fumetto e dell’anime in Italia è quello inglese: venendo dalla visione del cartone, in cui tutti parlano sempre e solo di peccati capitali, mi suona un po’ strano ma tant’è: cercherò di usare il nome ufficiale ma se mi uscirà quello italiano abbiate pazienza, anche io sono – quasi – un povero vecchio.
Dunque, prima di tutto qualche dato ovvio: il fumetto da cui il cartone prende le mosse ha iniziato la serializzazione nel 2012 ed è tutt’ora in corso mentre la prima stagione della trasposizione animata è uscita in Giappone nel 2015 e da noi lo scorso anno, patrocinata da sua maestà Netflix in persona. Questa prima tranche copre – se non ho sbagliato i conti – fino al tredicesimo volume circa del fumetto (a oggi ne sono usciti ventisei nel Sol Levante e diciotto da noi – il 19 uscirà questo mese).
Seven Deadly Sins o, se preferite, 七つの大罪(Nanatsu no Taizai), è un manga realizzato da Nabaka Suzuki di enorme successo in Giappone e, a quanto pare, anche nel resto del mondo. Io, che sono notoriamente l’ultimo pirla a sapere le cose, non ne avevo mai sentito parlare. L’ho trovato proprio su Netflix e, ispirato dal fatto che quei furboni della big N sanno come si vende un prodotto, ho iniziato a guardarlo unicamente perché mi avevano piazzato in homepage, a tutto schermo, un’immagine di una donnina ritratta in abiti piuttosto discinti. Spinto da curiosità puramente estetica (ma avendo chiarissimo che si trattava di roba potabile, tutto sommato) ho iniziato a guardare la prima puntata. E, pur non rimanendone particolarmente stregato, sono andato fino in fondo.
Qualcosa del genere
Solo al termine della visione, in effetti un po’ interdetto dal fatto che più di un punto della trama non venisse affatto concluso, ho scoperto che questa prima stagione copre solo la prima saga del manga, pertanto tantissimi aspetti della narrazione risultano monchi o vaghi perché vengono sostanzialmente rimandati alla seconda stagione, annunciata recentissimamente per gennaio 2018. Questo resta un dato fondamentale da tenere a mente se no si rischia di prendere Seven Deadly Sins come qualcosa di concluso quando non lo è nemmeno per sbaglio.
Ora inizia la parte più recensoria vera e propria e potrei anche scrivere cose che rientrano genericamente nella categoria denominata “spoiler”. Quindi, Benny, ti prego:
Uomini avvisati, mezzi salvati. Dunque procediamo, iniziando da un po’ di contesto preso di peso dalla prima puntata.
Il protagonista dell’opera si chiama Meliodas e ne facciamo immediatamente la conoscenza all’inizio della prima puntata, dopo un brevissimo flashback (il cui senso si capirà solo quando, a momenti, non lo ricorderemo neanche più). Il nostro è l’eroe della vicenda nonché il capitano dei famosi Sette Peccati Capitali, un gruppo di sette cavalieri sacri (il vertice della gerarchia sociale di questo mondo immaginario, inferiori al solo re) reietti, a quanto pare responsabili di un attacco al potere risalente a dieci anni prima e quindi ormai separati l’uno dall’altro e sparpagliati per tutto il territorio della Britannia – sì, questa è una cosa che non si capisce per gran parte del tempo: perché un’ambientazione così fantasy e palesemente inverosimile sovrapposta a un luogo reale? Per la maggior parte del tempo è un enorme “boh”, poi si scopre. Ma solo nelle ultimissime puntate. Non è così rilevante, alla fine.
Comunque sia, nel momento in cui inizia il nostro racconto, il re non sta passando il migliore dei momenti perché i cavalieri sacri che lo avevano salvato dal tentativo di insurrezione dei Sette Peccati Capitali hanno maturato la brillante idea di ribellarsi e di imprigionarlo, prendendo così il controllo del regno di Lyonesse. Ciò spinge la principessa Elizabeth, figlia del re Bartra, ad andare a cercare i Sette per liberare suo padre (cioè il tizio che, in teoria, dieci anni prima, proprio Meliodas e compagnia avrebbero voluto fare a fettine per prendere il potere. Sì, anche questo punto non è proprio limpido).
Un’istantanea di re Bartra quando, da giovane, giocava a calcio
Ovviamente non è vero nulla, Meliodas è una pasta d’uomo che, anzi, al re vuole ancora molto bene nonostante le incomprensioni sicché lui e la principessa monocola-per-scelta fanno comunella più o meno subito; addirittura il biondo cavaliere diversamente alto (cit.) dimostra anzi di gradire parecchio la presenza e la compagnia della giovane Elizabeth. Da lì al partire alla ricerca degli altri sei Peccati in pieno stile “dobbiamo riformare la banda!” il passo è breve e, sostanzialmente, da qui prende le mosse l’epopea che segue per tutti e i 23 episodi successivi.
La premessa è sufficientemente interessante per portare lo spettatore a essere invogliato a vedere il resto della serie ma, al contempo, è anche piuttosto banale in sé. Tuttavia il ritmo è molto buono e la storia parte anche piuttosto rapidamente, salendo sempre più di intensità – a volte grazie alla velocità degli eventi che si susseguono, a volte grazie al carico emotivo dei personaggi su cui si stringe il focus narrativo – ma, di fatto, non è mai noiosa. Una scrittura così sincopata della trama principale, però, ha tolto attenzione ai dialoghi più sentimentali, costretti ad appiattirsi sul cliché (e quando i cartoni giapponesi stappano la bottiglia del melenso l’unica è evadere mentalmente se no si muore male di diabete) e, soprattutto, ha reso più complessa, forse troppo, una caratterizzazione efficace di tutti i personaggi, sicché più di un protagonista risulta piatto oppure troppo disposto a cambiare repentinamente opinione su questo e quello.
Uno degli elementi dell’anime che funzionano meglio è sicuramente Meliodas, concepito come il classico personaggio molto shōnen a cui, guardandolo, non daresti una lira neanche per sbaglio ma che in realtà è ovviamente fortissimo. È bassino, sempre positivo e sorridente, più o meno imperturbabile, nasconde un segreto oscuro relativo alla sua vera potenza, è a tratti un po’ tardo nel capire cosa accade attorno a lui e ha un aspetto da eterno ragazzino; in pratica è una versione bionda, medievale e anche un po’ pervertita del sempiterno Goku. Ah, Toriyama, quanti danni hai fatto! Ma, nel complesso, il comandante dei Sette funziona, come del resto capita quasi sempre ai personaggi molto toriyami (e, in effetti, se Goku è un autentico standard del genere qualcosa vorrà dire).
Il buon Meliodas
Per il resto del cast, le intuizioni alla base della costruzione del personaggio sono di norma migliori rispetto all’effettiva caratterizzazione e la loro effettiva affinità col peccato che in teoria dovrebbe rappresentare è sempre talmente vaga che non si capisce nemmeno – tranne forse nel caso di Ban o dello stesso Meliodas. Non è chiarissimo se Suzuki abbia intenzionalmente usato come semplice pretesto la questione dei peccati o se, in realtà, non avendo capitone granché in buona fede, è convinto di aver descritto dei personaggi effettivamente connessi a ciò che rappresentano. Finché non glielo si chiederà, non lo sapremo mai e comunque non è automatico, per un autore del Sol Levante, azzeccare in pieno la rappresentazione di retaggi culturali occidentali molto antichi. Per adesso resta che, di “peccaminoso”, questi hanno poco o nulla (anche perché sono i buoni, mentre i peccati non sono qualcosa di connotato positivamente, di solito).
Un punto molto dolente sono invece i cattivi: c’è un villain più malvagio degli altri ma rimane uno sconosciuto per quasi tutto il tempo, non gode di alcun focus che ne approfondisca la vicenda personale in maniera soddisfacente e, in sostanza, sa di buttato là. Non si può pretendere di empatizzare con ogni antagonista, specie in un contesto narrativo dove i toni di grigio sono tenuti al minimo e dove il contrasto è bene bene-male male ma Suzuki ha fatto un lavoro estremamente perfettibile sugli antagonisti dei nostri eroi, specie con il cattivo più cattivo. Questa mancanza viene parzialmente nascosta dalla quantità davvero enorme di comprimari che Seven Deadly Sins presenta ma, alla fine dei giochi, lascia lo spettatore con una certa dose da amaro in bocca, qualcosa del genere: “Ah, ma è tutto qui?”.
Il cartone è ben realizzato a livello tecnico. L’animazione è mediamente ben al di sopra della soglia di accettabilità (non sempre scontato, vedasi il caso di Dragon Ball Super), i colori sono curati e il character design mi pare non solo fedele al manga ma anche molto efficace, per quanto evidentemente molto ruffiano. Il fan service ha preteso la sua tassa e quindi le fanciulle del cast principale sono praticamente tutte estremamente procaci e non manca nessuno dei personaggi cliché da shōnen, tipo: il bello e dannato, il bruttino (e sovrappeso) che sembra menarsela ma in realtà ha un cuore d’oro, il bishōnen sprovveduto, la ragazza ingenua e tutta buona sentimenti, la mascotte animale teneramente (?) kawaii che però è sfruttata anche come sponda comica, il cuor contento immarcescibile, il nemico onorevole tormentato, la femme fatale e così via. Per ogni personaggio il design è indovinatissimo, pienamente in sintonia con quelli che dovrebbero esserne il ruolo e il “sapore”.
Per quanto riguarda l’edizione italiana (sì, l’ho visto doppiato. Non sono un purista di quelli che in giapponese coi sottotitoli è meglio per forza), una menzione particolare la merita senza dubbio il doppiatore di Ban, il per me sconosciuto Massimo Aresu. Son tutti bravi i doppiatori del cast eh, ma Ban acquista una tridimensionalità unica nell’economia dell’anime grazie alla caratterizzazione che Aresu riesce a dargli, di fatto salvandolo dall’enorme rischio cliché che è sempre in agguato quando si tratta di personaggi di questo tipo.
Per farla breve, Seven Deadly Sins ha poco o nulla di originale. Non è altro che un pastiche ben confezionato di tanti elementi e stilemi narrativi già in circolazione da una vita, non ultimo l’intreccio col ciclo arturiano che emerge nelle fasi finali della prima stagione. Però è discretamente godibile, fatti salvi il 95% delle battute di Elizabeth che è di una melensaggine insopportabile e altri peccati (è proprio il caso di dirlo) più veniali, tipo il tirare eccessivamente in lungo la storia personale di Ban o esagerare nell’intreccio delle vicende individuali di King, Diane e dello stesso Ban (che cercano di ricreare quell’effetto puzzle per cui tutto si collega se lo si guarda da lontano, col senno di poi. Ma pare un tentativo un filo troppo ambizioso).
Il sei e mezzo finale mi pare la giusta valutazione per un prodotto di questa fattura, che si segue per puro intrattenimento senza pretendere chissà che voli artistici e, comunque, lascia sul palato un gusto positivo a ogni episodio. Il tratto più coinvolgente è appunto il ritmo della storia che procede spedito e ti spinge ad andare avanti per sapere come finirà la storia e, soprattutto, per vedere finalmente assieme tutti i Peccati che, alla fine – e anche giustamente –, sono il vero fulcro di tutta la faccenda.
Un anime e un manga che non cambieranno il destino dell’umanità ma, perlomeno, fanno passare lietamente qualche ora. Per metatesti avvincenti, culturalmente impegnati e intriganti rivolgersi altrove.