Ottobre 11, 2021

Appunti sparsi su: Dune di Denis Villeneuve

By In Cinema, Nerdismi

Una nuova rubrica a cadenza disperatamente irregolare di cui non c’era alcun bisogno e che si chiamerà – pazzesco! – proprio Appunti sparsi. Nella mia testa è dedicata principalmente a film, serie tv, libri e fumetti ma chissà cos’ha in serbo il futuro per questa nuova, piccola cosa infelice di cui forse uscirà solo questo piccolo episodio introduttivo (anche questo è ovviamente possibile)


Non aggiorno abbastanza spesso questo blog, lo so. Ma ogni tanto mi ricordo di averlo e allora perché non iniziare una nuova rubrica completamente a caso e con una cadenza più irregolare della copertura in asfalto di una qualunque provinciale italiana? La causa scatenante è stata la visione di Dune, l’adattamento cinematografico bla bla bla (tanto lo sapete) del famoso romanzo di Herbert bla bla bla capolavoro seminale e fondativo della fantascienza moderna bla bla bla diretto da Denis Villeneuve, regista canadese che è indiscutibilmente l’astro più fulgido del panorama fantascientifico contemporaneo (perlomeno al cinema) grazie ad Arrival e Blade Runner 2049 (ma ha fatto anche altro e pure “l’altro” è meritevole).

Le righe che seguono non sono parte di “una recensione” – ce ne sono già duecentomila in giro, immagino quasi tutte più meritevoli di quel che potrei buttar fuori io dopo una notte di lamentazioni, dolore e scorie cerebrali – ma più un flusso di coscienza disorganizzato e disomogeneo su ciò che più ho apprezzato o mi è rimasto impresso del film in questione. In pratica, i deliri di un pazzo che è rimasto toccato da una produzione che, nella mia umilissima opinione, ridefinisce in altissimo gli standard di alcuni aspetti della realizzazione di un film ambientato in un mondo che non è esattamente il nostro, oltre a godere di uno storytelling ficcante. Come disse qualcuno: «C’è poco da parlare, stiamo godendo».

Il world-building e l’estetica

Durante l’intervallo della proiezione a cui sono andato, non ho potuto fare a meno di scrivere al buon dottor Alessandro Negri, mio sodale all’interno del podcast Fumettocrazia nonché estimatore del lavoro di Villeneuve in generale e di quello fatto su Dune in particolare. Il dottore, graziato da un raro dono della sintesi, mi ha risposto con un laconico ma perentorio: «Un uomo veramente con una visione», sintetizzando molto efficacemente quanto sia pazzesca l’opera di world-building portata a termine da Villeneuve e dai suoi collaboratori. Perché non si può definire in alcun altro modo l’ispirazione del regista canadese e della sua squadra: una visione. Precisa, coerente, esteticamente appagante, francamente splendida. Ogni inquadratura di Dune si potrebbe estrapolare dal contesto e ripassare ad acquarello per ottenerne un quadro da appendere in salotto, il gusto per i colori è sempre impeccabile e la fotografia di Greig Fraser eccellente (anche se non contundente come in Blade Runner, dov’è bella in maniera quasi dolorosa grazie all’immortale Roger Deakins).

A proposito della scelta sul direttore della fotografia, non so se sia corretta ma mi sono fatto un’idea del perché sia stato assunto Fraser e non Deakins, che pure aveva svolto quel ruolo in tre dei precedenti cinque set di Villeneuve: tra le sue varie anime, Dune è anche un thriller politico che racconta uno scenario di guerra civile intergalattica e, considerando che Fraser ha fatto (bene) Rogue One: A Star Wars Story, la scelta ha molto senso. Poi, magari, Deakins era occupato e non poteva lavorare a Dune mentre Fraser era disponibile e tutto si riduce a questo, vai a sapere. In ogni caso, lo stile di quest’ultimo ha una sfumatura più livida, più cruda rispetto a quello di Deakins e magari è stato preferito per questo – peraltro, Deakins sa fare tutto ed egregiamente, si sarebbe adattato benissimo anche a Dune, ovvio.

Al di là della fotografia, ogni dettaglio architettonico, ogni elemento di meccanica, ogni aggeggio tecnologico, ogni scelta di design: tutto funziona tanto come elemento dello scenario credibile che fa da sfondo al racconto con una funzione precisa, quanto dal punto di vista estetico. Ha tutto senso ed è tutto bello, in pratica. Sicuramente c’è un’influenza dell’estetica della trilogia originale di Star Wars, con il suo stile “ultratecnologicamente avanzatissimo eppure logoro & usurato”, c’è chiaramente la necessità di tener conto delle descrizioni e dell’immaginazione di Herbert ma poi c’è anche l’ispirazione di Villeneuve, che tiene insieme tutto con il suo gusto impeccabile, l’autentico denominatore comune di tutto questo processo creativo immane.

Un’ultima sbrodolata va dedicata al deserto, che entra in scena per davvero a film inoltrato – in maniera forse controintuitiva – ma, come si dice in questi casi usando un concetto trito e ritrito abbastanza corretto, diventa quasi un personaggio in più. Molto giallo, molto vivo ma senza smarmellare troppo: se ne percepisce il calore e l’inospitalità ma non dà mai la sensazione della fornace rovente, del clima torrido e mortale perché – è un’ipotesi – la pericolosità dell’ambientazione dev’essere innanzi tutto data dal verme delle sabbie, dal terrificante Shai-Hulud. Altra scelta che ha senso da un punto di vista diegetico e pure da quello estetico, perché fa sì che il deserto non emerga solo come fonte di puro pericolo e si presenti come una specie di “veicolo mistico” (in quanto scenario di gran parte delle visioni di Paul) nonché come ambiente vitale, visto che parliamo pur sempre del terreno di coltura della famosa spezia. Trasformarlo in un incubo inospitale di per sé (il cui senso di pericolo viene ulteriormente amplificato dalla presenza dei terribili vermi) sarebbe stata una scelta comprensibile e corretta ma pure ovvia: così, invece, mi pare che lo scenario acquisti più vita, più dignità, se vogliamo.

Per concludere: il lavoro di world-building fatto su Dune, se non si è capito, è secondo me impeccabile nonché un bel Bignami per chiunque si appresti a realizzarne uno per i cavoli suoi. L’ovvia speranza è che il secondo film non abbassi l’asticella e la mantenga lì, nell’Iperuranio dove mi pare che oggi si possa collocare. Per il resto, novanta minuti di applausi.

L’eroe

Paul Atreides non è un personaggio facile, anzi. Non è quell’eroe tetragono e inscalfibile che risolve l’intrico narrativo per il Bene con la B maiuscola senza se e senza ma, non è l’uomo forte che si cala nel bailamme e mette ordine riportando equilibrio tra lo yin e yang attraverso un percorso fisico-sacrificale-immolatorio (che però può solo finire bene), magari connotato dal classico scontro all’ultimo sangue con il grande cattivo. Non ho letto il libro originale, almeno, non ancora ma l’interpretazione di Chalamet mi ha perlomeno ricordato quella che, a suo tempo, Elijah Wood diede di Frodo Baggins.

In effetti, i due personaggi mi paiono aver sufficienti punti in comune per azzardare un parallelo: magari non sono simili ma comparabili, tutto sommato, sì. Entrambi sono in qualche modo predestinati (o comunque chiamati) a caricarsi un fardello gravoso sulle spalle, entrambi lottano per mantenere la barra a dritta nonostante siano giovani, relativamente inesperti e posti in condizioni di svantaggio rispetto alla missione che devono portare a compimento, entrambi hanno un lato mistico – connesso con le rispettive forme di predestinazione/vocazione – che gli consente di avere uno sguardo altro rispetto a chi è con loro, più ampio, differente, una visione che sicuramente può essere un’arma in più per loro ma che, contemporaneamente, scava un solco rispetto agli altri personaggi, li sposta su un piano leggermente diverso rendendoli più soli (e quindi con una difficoltà ulteriore da superare nel loro cammino).

L’interpretazione del personaggio che dà l’attore newyorkese è convincente, misurata e adatta a quel che mi pare richieda il personaggio: un lavoro difficile ma eseguito con classe e talento. Ne consegue che il Paul Atreides di Villeneuve è un personaggio veramente tridimensionale quando, invece, essendo così etereo e fallibile, sarebbe stato facile vederlo scadere in un semplice tipo psicologico piatto o, peggio ancora, in una funzione narrativa. E diciamolo chiaramente: non è facilissimo empatizzare con un predestinato, giovanissimo, umbratile, pensieroso e incerto, di nobile casato ma anche confuso dalle sue stesse origini per metà Belle Gesserit, inesperto ma spesso preda di visioni rivelatrici di natura misteriosa che gli comunicano cose che solo lui sa e vede nonché, per finire, agnello sacrificale di un complotto intergalattico che lo costringe ad assumere un ruolo messianico.

Tuttavia, il buon Denis è riuscito a valorizzare il carisma di Chalamet e a inserirlo nel modo giusto nella narrazione, rendendolo sia affascinante, sia fragile al punto giusto per consentirci, se non di tifarlo, quanto meno di interessarci alle sue vicende (come detto, per empatizzare in senso pieno aspettiamo il prossimo treno). Ci vuole molta classe per prendere un personaggio così e renderlo non solo credibile ma anche veicolo di coinvolgimento per lo spettatore: ripescando il parallelo con Frodo de Il signore degli anelli, nel caso dei film di Jackson venivano in aiuto il personaggio di Sam, molto più accessibile, le differenti sottotrame e la struttura fortemente corale del racconto; Villenueve, invece, ha messo in scena un personaggio che, in caso non avesse funzionato, gli avrebbe ammazzato completamente il film, visto che Dune è soprattutto il romanzo di formazione di Paul Atreides. Per fortuna, il regista canadese ha vinto la sua battaglia.

Il misticismo sognante

Un altro trappolone micidiale per i registi è l’integrazione ben fatta di un elemento mistico/sognante/visionario/allucinato all’interno di una narrazione verosimile (o presunta tale), che segue quelle che dovrebbero essere le regole della realtà. Il trappolone sta nel fatto che, a seconda di come si rendono su schermo queste sequenze semi-oniriche, è un attimo passare da un toccante dramma politico-fantascientifico al mondo degli spot della Whirlpool o alle pubblicità del profumo. Il deserto di Arrakis all’alba intriso di effetto blur, una boccetta della nuova fragranza sullo sfondo e i membri a caso del cast che circondano Zendaya mentre lei mormora: «J’adore», con tutti che guardano avidamente in camera sfoggiando espressioni tra il languido e il torvo (raggiungendo più spesso lo stolido, tra le varie sfumature possibili) mentre cercano di contrarre le labbra in maniera sexy (o presunta tale). Questo parallelismo brillante non è peraltro del tutto farina del mio sacco ma si basa sul commento che l’Economist ha fatto di Malcolm & Marie, paragonandone alcune sequenze proprio alle pubblicità dei profumi. Curiosamente, anche lì c’è Zendaya – ma grazie al Cielo i punti in comune con Dune terminano qua.

Spesso e volentieri, boccetta sullo sfondo a parte e mutatis mutandis a livello di dettagli nell’inquadratura, le scene di sogno vengono rese esattamente in questo modo. E, a dir la verità, non ci sono moltissimi altri modi codificati a livello formale per farlo – quindi è pure complicato inventarsi qualcos’altro e renderlo immediatamente riconoscibile allo spettatore, tanto per spezzare una lancia in favore dei cineasti non troppo creativi. Il buon Villeneuve non rivoluziona né inventa nulla, a livello formale, ma riesce contemporaneamente a non indugiare troppo nelle visioni di Paul, a renderle accessibili allo spettatore, a far intuire quanto peso abbiano su di lui e a scollarle dalla realtà del racconto quanto basta per spostare – non troppo ma il giusto – il protagonista su un altro piano di consapevolezza (sempre per quella storia per cui il giovane Atreides è un eroe atipico, chiamato a essere diverso da tutti gli altri per natura).

Allo stesso modo, è brillante la maniera in cui tutto il film accoglie al suo interno l’elemento mistico che Herbert ha infuso nel racconto, non solo la sua manifestazione all’interno dei sogni di Paul; è bilanciato nella giusta maniera (i personaggi non sembrano pazzi invasati quando ne parlano) e viene integrato come una delle tante sfumature dell’universo, senza le gag in stile Star Wars tra chi crede alla Forza e chi no. Certo, è confinato più all’interno dei risvolti di trama che coinvolgono le Bene Gesserit, Jessica e i Fremen ma il contrasto con la visione più materialistica, politica in senso terr-terra e concreta degli Harkonnen, dell’Imperatore e, perché no, anche di Leto Atreides è fine, sta in ciò che accade e negli approcci diversi agli eventi, senza mai essere esplicitato.

Insomma, si percepisce nettamente che la storia del film comprende anche un elemento trascendentale, lo stesso che lega le capacità soprannaturali di alcuni personaggi con il tema della predestinazione di Paul (o meglio, del Kwisatz Haderach) e con il sistema di credenze messianiche dei Fremen, dando un sostrato comune a tutto questo e dipingendo il tutto in maniera naturalistica. Non è banale: il rischio di trasformare il film in un pastone venato di follia religiosa incomprensibile/tribale o, peggio, di raccontare questo elemento con occhio sprezzante al punto da privarlo di dignità e credibilità oppure, ancora, instradare irrimediabilmente il racconto sulla formula trita “spiritualità vs materialismo” era dietro l’angolo. Per fortuna, è stato totalmente evitato. E si gode smodatamente, suvvia.

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