Nuovo appuntamento con la rubrica a cadenza più disperatamente irregolare (e di cui non c’era alcun bisogno) del mondo del web. Nella mia testa, Appunti sparsi è dedicata principalmente a film, serie tv, libri e fumetti ma chissà cos’ha in serbo il futuro (oggi documentari, per esempio) per questa nuova, piccola cosa infelice di cui possiamo finalmente dire che non c’è più solo l’episodio introduttivo
Stan Lee è il documentario che racconta la vita dell’uomo che per il pubblico, generico e non, identifichiamo con la Marvel, attualmente disponibile su Disney + dallo scorso 16 giugno. Il piccolo aspirante storico del fumetto che è in me, dal suo minuscolo nido all’interno del mio subconscio distratto, ha subito iniziato a bombardare la parte più consapevole del mio cervello non appena la locandina ha fatto capolino nella home del servizio streaming: dovevo vederlo. E chissà, magari poi persino parlarne su questo disastrato blog che aggiorno in maniera vergognosamente incostante (chi ricorda il primo capitolo della rubrica?).
Come se non bastasse, la mia bolla social ha rincarato la dose, rilanciando continuamente articoli, video e ogni genere di contenuto che facesse riemergere ancora una volta i lati oscuri dell’uomo Stan Lee. L’innesco è arrivato dalle vibranti proteste dagli eredi di Jack Kirby che, ancora una volta, hanno alzato la voce per lamentarsi del trattamento riservato al compianto Re nel corso del documentario. In misura minore, poi, tanti altri si sono uniti al coro, chi parlando delle controversie legate a Steve Ditko, chi alle responsabilità di Lee nel trattare equamente artisti e disegnatori che lavoravano in Marvel da un punto di vista contrattuale e, soprattutto, di gestione dei diritti d’autore sui personaggi, chi invece rimarcava la sua latitanza sulla questione del rilascio delle tavole originali agli artisti… e così via.
La questione mi ha molto colpito perché, al di là del fatto che riguarda la Marvel, i fumetti di supereroi e una parte rilevante della cultura pop del 900 che probabilmente oggi non esiste più (e si è trasformata in altro), Stan Lee in quanto documentario offre anche il destro per una riflessione più ampia proprio sui documentari… e sulla premessa doverosa che questi si portano dietro. Una premessa che, nonostante possa apparire pleonastica, è quasi più interessante che disquisire su Stan Lee in sé. Quasi, eh, perché parliamo anche di quello. Ma andiamo con ordine.
I documentari sono prodotti d’intrattenimento, non saggi scientifici
E dunque ripartiamo: Stan Lee è, per l’appunto, un documentario. Per quanto a prima vista non sembri, i documentari non sono articoli scientifici o saggi accademici ma piuttosto prodotti d’intrattenimento. Questo cosa significa? In parole povere, informarsi in maniera seria attraverso i soli documentari è un’operazione da non fare. Mai. E naturalmente, per quanto attiene ai fatti che racconta, anche Stan Lee non fa eccezione.
Tecnicamente, i documentari fanno riferimento a quella macrocategoria (principalmente di origine televisiva ma non solo) che viene chiamata infotainment, cioè – stando al sito della Treccani – «l’ibridazione tra informazione e intrattenimento. A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, prima negli Stati Uniti e poi nel resto del mondo, l’informazione inizia a far proprie tecniche derivate dall’intrattenimento, un processo visibile tanto nei giornali quanto, con maggiore evidenza, in televisione, per via di un’intensificazione delle strategie delle reti commerciali. La notizia (…) utilizza tecniche tipiche dell’intrattenimento per rendersi ancora più appetibile: si arricchisce con modalità narrative rubate alla fiction, fa uso di musiche a effetto e grafiche ad hoc, cerca forme espositive riprese dal varietà. (…) La contaminazione avviene a vari livelli, spesso cercando il lato emotivo delle storie, portando così alla nascita di uno stile giornalistico tabloid, enfatico ed eccessivo. L’infotainment è ormai una modalità di tutto il giornalismo televisivo».
I documentari raccontano storie che si basano su fatti reali ma è il modo in cui vengono raccontati a fare spesso tutta la differenza del mondo. Certo, si comincia sempre dagli eventi veri e propri ma bisogna considerare il modo in cui sono presentati, l’enfasi che si pone su alcuni tratti invece che su altri, magari persino il salto a piè pari di altri aspetti ancora. Le sottolineature, gli approfondimenti, le superficialità, le approssimazioni e i silenzi sono mezzi potenti con cui stimolare una particolare interpretazione di una sequenza di evential posto di un’altra. Tutto questo per dire che i documentari non hanno per forza lo scopo di dire la verità.
Più “grave” ancora, se vogliamo: i documentari a volte non hanno nemmeno la voglia di dire la verità. Sono prodotti d’intrattenimento, servono a raccontare qualcosa. Poi sta a noi scoprire se quel qualcosa è affidabile anche a livello informativo o no. Vanno considerati come un genere letterario, non la declinazione televisiva del saggio tecnico-scientifico. Sia chiaro: esistono anche documentari che riportano esclusivamente informazioni verificate, corrette ed esatte ma bisogna sempre ricordare che guardare una produzione audio-video da tutt’al più due ore non rimpiazza lo studio approfondito di anni su una materia e che, per quanto giuste, quelle informazioni sono comunque il risultato di una selezione feroce e di una sintesi comunque atta a realizzare un prodotto per il grande pubblico.
Certo, spesso associamo i documentari alla divulgazione scientifica perché la loro formula e struttura ci si presta particolarmente bene; tendiamo a pensarli in relazione ai resoconti storici, agli approfondimenti archeologici o etnografici; tuttavia, non bisogna mai dimenticare che non esiste documentario – per quanto ben fatto – che possa sostituire lo studio attento e diretto delle fonti nonché la comparazione tra studi specialistici (magari anche molto diversi) sulle stesse fonti fatta a sua volta da uno specialista.
I documentari sono utilissimi per entrare all’interno di un argomento, per venire a conoscenza di luoghi e personaggi ignoti, magari per alimentare una passione o, più prosaicamente, per scoprire un paio di aneddoti da giocarsi alle cene con gli amici e/o quando si fanno le parole crociate… ma niente di più. La visione dell’ultimo e ultracontemporaneo documentario su Tutankhamon non sostituirà mai la lettura del saggio specialistico più recente in materia (magari anche una pubblicazione dal taglio più divulgativo, non per forza fatta da accademici per altri accademici). Ancora di più: la visione dell’ultima docu-serie su Tutankhamon probabilmente non vale nemmeno la lettura degli ormai sorpassati saggi di Howard Carter, l’archeologo britannico che ne scoprì la tomba un secolo fa.
Tutta questa premessa serve fondamentalmente a dire che non bisogna per forza credere a tutto quello che Stan Lee racconta. Anzi, non si deve credere a tutto quello che Stan Lee racconta, punto.
Stan Lee è il ritratto che Stan voleva dare di sé
Il documentario è una produzione istituzionale, che peraltro denuncia apertamente fin dalle battute iniziali d’essere stata realizzata adoperando esclusivamente registrazioni della voce stessa di Stan the Man (è anche stato uno dei punti forti su cui ha insistito il marketing promozionale). È un racconto fatto attraverso le sue parole, ergo con un punto di vista unico e unitario, solo marginalmente arricchito dalle voci di altre persone, sistematicamente relegate sullo sfondo, come piccolissime comparse.
Stan Lee è dunque la biografia di Stan Lee raccontata da Stan Lee, peraltro usando solo dichiarazioni pubbliche. Il documentario è di fatto la cristallizzazione in un documento audio-video della versione di Stan sui fatti della sua vita, sui suoi rapporti interpersonali con colleghi & collaboratori e, naturalmente, sulla Marvel. Niente di più, niente di meno. L’operazione che si è voluta fare non è altro che un racconto in prima persona, una specie di autobiografia postuma su Stan, di Stan. E verrebbe da aggiungere: per Stan, quasi a suo uso e consumo, rispetto a chiunque sappia come sono andate veramente alcune cose.
Aspettarsi infatti che Stan Lee facesse luce su alcuni aspetti poco chiari o controversi del “Sorridente” Stan va per forza catalogato all’interno della categoria “pia illusione”, specialmente considerando che non si tratta di una produzione indipendente ma di un’iniziativa che ha dietro Marvel (e quindi Disney), con tutti i crismi dell’ufficialità che un progetto del genere può avere. E la stessa azienda ha sfruttato ampiamente i servigi di Lee in qualità di uomo-immagine. Poteva dunque concedersi di gettare ombre sull’uomo Stan? Ovviamente no… e infatti lo evita accuratamente, dedicandogli invece una sorta di monumento in memoriam, qualcosa che ricorda più un tributo al proprio più celebre e devoto dipendente.
Stan Lee è un bel documentario?
Fatto salvo tutto questo e tenendo sempre bene a mente che Stan Lee è una narrazione parziale, faziosa e lacunosa dell’epopea reale della Marvel e dell’uomo che dà il titolo al documentario, a livello narrativo si tratta di un prodotto fatto molto bene. Anzi: fatto così bene che il fatto che sia essenzialmente un’agiografia di Lee dispiace ancora di più (ma, come si diceva, era inevitabile che fosse così). Onestamente, sforzandomi di prenderlo per quello che è, mi è piaciuto molto – nei limiti di quanto mi possa piacere “molto” una storia parziale e studiata al millimetro per farti piacere una persona di cui vengono ignorati scientificamente tutti i difetti e i misfatti. Del resto, bisogna sforzarsi (almeno dal mio punto di vista) di prendere le cose per quello che sono: è un’operazione simpatia costruita su una base di disonestà intellettuale ma anche realizzata a regola d’arte ed estremamente godibile. Una cosa non esclude l’altra.
La quantità di materiale d’archivio mai (o quasi mai) visto prima è notevole, la selezione dei contributi audio dello stesso Stan che scorrono man mano che il racconto procede è francamente indovinatissima e la maniera in cui tutto è legato insieme per costruire un racconto unitario e organico è semplicemente perfetta. Nonostante sia la prassi per produzioni del genere, anche la scelta di mostrare copertine o vignette degli albi più celebri a cui Lee ha lavorato si amalgama alla perfezione nel racconto e le scelte di accostamento tra alcune scene dei comics del periodo mitico della Marvel e specifici fatti della vita del Sorridente sono persino brillanti, di quando in quando.
Il regista David Gelb (Marvel 616, The Lazarus Effect, Chef’s Table) fa del resto un ottimo lavoro con l’enorme materiale a sua disposizione: la narrazione è fluida, appassionante, intrigante e piacevole; la selezione delle fonti e il lavoro di sintesi sulla biografia potenzialmente infinita del vecchio Stan sono intelligenti. Anche la focalizzazione sul periodo che va dalla fine degli anni 30 alla metà degli anni 70, cioè tutta la parte della carriera di Lee in cui fare realmente i fumetti è stata la più rilevante, è azzeccata (per quanto forse inevitabile).
L’idea di alternare il materiale d’archivio reale con ricostruzioni in 3D, che replicano il mondo dei plastici e dei modelli in scala, per riempire i vuoti di immagini che necessariamente si presentano è semplicemente geniale; è un’intuizione che aiuta a spezzare quello che sarebbe altrimenti un flusso continuo di foto e video di svariati decenni fa, consente di illustrare (nel senso pieno del termine) ex post eventi che ovviamente non sono mai stati immortalati in tempo reale e dà un gusto molto novecentesco al tutto – il che funziona alla grande insieme con la storia di Lee la cui vita, di fatto, si è svolta in grandissima parte lungo tutto l’arco del secolo scorso.
Si può serenamente dire che Stan Lee è probabilmente il miglior ritratto possibile che si può fare di Stan per cercare di metterlo in buona luce. Anche Fumettologica ha infatti usato il termine agiografia, che tutto è meno che fuori luogo: il documentario è stato fatto con lo scopo di raccontare la versione di Lee, evitando le controversie e snocciolando invece tutti i suoi meriti e quanto di buono abbia combinato lungo una vita consacrata – non senza ombre, lo ripetiamo ancora una volta – alla Marvel. È la miglior arringa difensiva possibile del Sorridente, se vogliamo metterla in questi termini.
Il pubblico di Stan Lee
Ma a chi è diretta una produzione così? Qual è il pubblico di un documentario come Stan Lee?
In realtà, chiunque sia appassionato di fumetti di supereroi può trovarci spunti interessanti, aneddoti a profusione, curiosità storiche di ogni genere e qualche riverbero delle reali dinamiche di lavoro all’interno di una casa editrice (e dell’industria del fumetto) negli anni 30, 40, 50 e 60. Oltre a una biografia tutto sommato accurata di Lee per quanto riguarda gli aspetti più positivi e raccontabili, ovviamente. Niente di radicalmente nuovo ma, come si diceva, forse il miglior riassunto fatto finora della parte più edificante della vita di Lee.
Il pubblico generico e gli affezionatissimi dell’MCU che hanno scarsa o nulla dimestichezza coi fumetti (e tutto il loro universo di riferimento extra testuale) troverebbero la più assoluta e sfacciata conferma all’immagine che Stan teneva a dare di sé, rigorosamente a metà tra l’arzillo, simpatico nonnetto della porta accanto e il santone da discorso motivazionale, capace di avere sempre una buona parola per tutto e tutti. E, chissà, magari anche il desiderio di approfondirla, scoprendo che dietro al sorriso e agli occhiali affumicati di quel gentile vecchietto ci sono molte più ombre di quanto si direbbe, perlomeno a prima vista.
Chi sia già a conoscenza di come sono andate realmente le cose, avendo sentito altre campane oltre a quella di Stan the Man, troverà un supplemento di informazioni utile per integrare ciò che sa già; chi invece si approcci per la prima volta alla storia della Marvel, può cogliere l’occasione di avere un utile punto di partenza, a patto di sapere che è solo parte della faccenda. Il documentario è di facilissima fruizione, è godibile e divertente… a meno di non avere in astio la figura di Lee, naturalmente. In quel caso, ci si troverebbe di fronte a una visione semplicemente insostenibile… ma quale detrattore del Sorridente si sottoporrebbe volontariamente a un simile processo autolesionistico che manco la cura Lodovico di kubrickiana memoria?
E la vera storia della Marvel?
Il leit motiv di questo interminabile articolo è uno solo: Stan Lee non racconta tutta la verità, per quanto lo faccia indiscutibilmente molto bene. Dice qualche verità, qualche volta dice anche molta verità ma c’è tutta una serie di fatti che viene tralasciata e/o appena accennata a causa dell’imbarazzo che si porta dietro. I rapporti con Ditko e Kirby, la costante decisione di schierarsi a fianco dell’azienda invece che dalla parte dei colleghi e dei collaboratori quando emergono dissapori e autentiche ingiustizie, le mancate riparazioni a torti precedenti (non solo e non per forza suoi) una volta che Lee si sarebbe anche trovato nella posizione di farlo con relativo sforzo: anche il Sorridente era umano, anche Lee aveva i suoi scheletri nell’armadio e dei “super problemi” a cui non sempre è stato in grado di trovare soluzioni soddisfacenti.
Per avere un resoconto esaustivo di tutto quel che è davvero successo, il consiglio è quello di leggere alcuni libri usciti negli ultimi anni. La base da cui partire necessariamente è Marvel Comics: Una storia di eroi e supereroi di Sean Howe (edito da Panini), che si sforza di raccontare tutta la vicenda della casa editrice dalle origini agli anni 2010 in maniera distaccata e asciutta, sintetica ma senza lacune, provando a distribuire meriti e colpe nella maniera più equa possibile, senza dare giudizi.
Inoltre, se si ha voglia di andare ancora più a fondo nella storia di Stan Lee, l’anno scorso è uscito anche in Italia Stan Lee: La storia della Marvel nella vita di un creativo e uomo d’affari amato e controverso, firmato da Abraham Riesman e pubblicato da Rizzoli Lizard. Per approfondire ulteriormente la storia della Marvel, più che quella di Lee, ha molto senso integrare il libro di Howe con un’altra pubblicazione targata Panini, ossia: Marvel. 80 meravigliosi anni. La vera storia di un fenomeno della cultura pop di Marco Rizzo e Fabio Licari.