Marzo 1, 2021

Lautaro e Lukaku: l’arte del compromesso

Breve storia di due attaccanti atipici che hanno dovuto trovare un modo per convivere al meglio grazie a un'arte decisamente molto italiana: quella del compromesso

By In Epifanie, Football scritto con Federico Raso

A un anno e mezzo dall’insediamento di Antonio Conte sulla panchina dell’Inter, uno dei principali punti di forza della squadra nerazzurra è la coppia di attaccanti formata da Romelu Lukaku e Lautaro Martínez. Per quanto si tratti di una realtà evidente, il racconto che si fa dell’intesa tra i due è spesso (molto) fuori focus: il ritornello che rimbalza dalla tv al web sul loro buon assortimento e la loro “intesa” è infatti più un luogo comune giornalistico che non una lettura precisa di quel che accade in campo.

La verità ci parla di una coppia peggio assortita di quanto non si dica – e di conseguenza più limitata, a livello di puro skill set complessivo. Data questa premessa, invece, non si dà sufficiente risalto al profondissimo lavoro che i due giocatori hanno fatto per risolvere i problemi derivanti dalla loro coesistenza. Riuscire a creare “in laboratorio” una complementarità che, semplicemente, non sembrava poter esistere è un evidente successo in cui c’è sicuramente molto di Conte ma ancora di più dei due giocatori in questione.

Il manifesto della LuLa?

Due giocatori unici

Prima di incontrarsi, tanto Lautaro quanto Lukaku avevano “studiato” da centravanti; ognuno con le proprie caratteristiche e peculiarità ma parliamo sostanzialmente di due prime punte. Due prime punte particolari, peraltro: nessuno dei due aveva tra i propri punti di forza il gioco spalle alla porta, la protezione di palla lontano dall’area avversaria o una spiccata tendenza ad associarsi coi compagni in fase di attacco posizionale. Due profili a sé, frutto di due storie personali molto diverse che però hanno avuto lo stesso risultato: trasformare entrambi in centravanti atipici con un set di movimenti con e senza palla sovrapponibile in più di una situazione.

Qualche giornata fa, parlando della sua evoluzione tecnica più recente, lo stesso Lukaku ha raccontato che ha iniziato seriamente a lavorare sul suo gioco spalle alla porta ai tempi dell’Everton, con il tecnico Roberto Martínez (che, peraltro, oggi lo allena nel Belgio). Ai tempi, però, le caratteristiche della Premier League, l’impostazione dell’Everton e la sua potenza devastante in campo aperto consentivano al belga di esprimersi soprattutto fronte ai pali, il contesto a lui più adatto: già allora Big Rom era inarrestabile nelle conduzioni con tanto campo di fronte, devastante nell’attacco della profondità, ingestibile nell’uno contro uno lanciato.

Ripassino

Coprire la palla in situazione statica rivolto verso il centro del campo, girarsi verso la porta mantenendo il possesso, giocare da pivot avanzato fornendo sponde ai compagni dopo aver catturato e protetto la sfera o la ripulitura di palloni sporchi non erano aspetti del gioco che Lukaku praticasse granché. Nessuna allergia ai compagni, né mancanza di spirito di sacrificio: durante le transizioni con tanto campo a disposizione, Big Rom ha sempre dimostrato una buona propensione ad associarsi e un istinto collettivista non trascurabile. Però sembrava anche che il centravanti di Anversa non fosse particolarmente interessato ad aggiungere al suo personale portfolio tutti i fondamentali del gioco spalle alla porta di cui sopra, facendosi bastare il loro sfruttamento situazionale. A onor del vero, nelle sue giornate migliori e considerando anche la velocità con cui generalmente si ribalta l’azione in Premiership a partita inoltrata, sembrava che il buon Romelu se la potesse cavare egregiamente anche così: la quantità di gol era già soddisfacente (non a caso, s’è guadagnato così il passaggio al Manchester United).

Per Lautaro il discorso è diverso: il giocatore che si vede scorrazzare per il prato di San Siro è facilmente identificabile con la sua versione più giovane che incendiava i cuori del Cilindro, dove – non a caso – ha formato la coppia di attaccanti più forte del Racing degli ultimi anni insieme con il più esperto Lisandro López: già allora, il lavoro di rifinitura era tutto sulle spalle dell’ex Lione. Licha era – ed è – un giocatore eccellente nel conservare il pallone, fare pause e prendere decisioni intelligenti nell’associarsi con i compagni.

Le statistiche dell’ultima Superliga argentina che i due hanno giocato insieme dimostravano già con chiarezza i rispettivi compiti delle due punte: tra gli attaccanti del suo campionato, Lautaro era alla posizione numero 169 per media di passaggi effettuati ogni 90 minuti (16.6, con una precisione del 69%). Lisandro, invece, era 33esimo con 31.3 passaggi effettuati, di cui il 79% con successo. Numeri che raccontano bene le inclinazioni di Lautaro, ma sicuramente influenzati dal contesto argentino, dove il dieci dell’Inter poteva imporre il proprio strapotere tecnico e istintivo negli innumerevoli duelli individuali. Per quanto il Toro sia migliorato non poco, sia nell’efficienza dei duelli che il sistema di Conte, declinato sulle sue caratteristiche, gli impone di ingaggiare a tutto campo, sia nella ricerca di un atteggiamento meno impulsivo, al Racing il suo profilo tecnico era sostanzialmente lo stesso: quello di un centravanti che non ama stazionare in area ma preferisce entrarci coi tempi giusti, sia attaccando la profondità che ricevendo i cross dalle corsie (l’esterno sinistro del 4-4-2 era Marcos Acuña, attuale terzino sinistro del Siviglia e ottima fonte di cross). Già all’epoca amava galleggiare al limite dell’area, la sua zolla per i tiri, oppure scendere per ricevere e affrontare i marcatori di spalle.

Ripassino, pt. 2

Metamorfosi

Come hanno notato in tantissimi, la trasformazione di Lukaku è stata spaventosa: per il gigante belga ora pare una seconda natura girarsi verso il centro del campo, combattere per ricevere il pallone, coprirlo col corpo per conservarlo e riconsegnarlo ai compagni. Considerando che lasciargli facoltà di girarsi, magari con tanto campo alle spalle, comporta come contromisura solo il segno della croce (o equivalenti di altre confessioni religiose), i difensori hanno imparato a giocarsi tutte le loro chance di limitarlo in anticipo o finché è spalle alla porta. Bene, Lukaku è cresciuto talmente tanto nella protezione di palla che, ormai, ai difensori resta quasi solo l’anticipo. La tecnica con cui Conte ha costretto il suo «diamante grezzo» (cit.) a cambiare pelle è stata la terapia d’urto: per tre mesi l’ex Everton si è allenato ogni giorno nei fondamentali del gioco spalle alla porta con Andrea Ranocchia in qualità di insegnante di sostegno.

Il discorso su Lautaro è invece differente: se con Lukaku Conte ha lavorato per trasformare una potenzialità sopita in un’abilità vera e propria, con il compagno di reparto ha ragionato più sull’adattamento di caratteristiche già presenti tra le varie capacità del giocatore. In breve: l’ex Manchester United ha aggiunto interi pezzi al suo repertorio, Martínez ha invece adattato a situazioni di gioco diverse elementi già presenti tra le sue qualità. Il modo in cui Lautaro riesce a essere associativo ricalca la caratteristica che meglio lo definisce come giocatore e che gli permette di essere efficace: l’istintività. Ogni giocata di Lautaro sembra essere più precisa e incisiva quando non viene pensata, quando mancano lo spazio e il tempo per ragionare e considerare altre opzioni. Non è un caso che uno dei compiti più consistenti del centravanti di Bahía Blanca, nel sistema di Conte, sia ricevere i palloni lontano dalla porta, il più delle volte con l’uomo alle spalle, e renderli giocabili con dribbling di prima, controlli a seguire, virate e tutto ciò che nel suo repertorio può aiutarlo a vincere duelli e creare una situazione di vantaggio a favore delle uscite o delle transizioni di una squadra che, proprio come il Toro, si accende a ritmi alti.

Questo non significa che Lautaro non risponda bene a ciò che questa epoca chiede sempre più insistentemente a un centravanti di alto profilo, ovvero essere utile al gioco della squadra anche lontano dalla porta: il suo impiego dell’ultimo anno e mezzo ha dimostrato quanto le sue doti nel vincere duelli, nel portare palla fuori area, nel saper reagire alla presenza di un uomo alle spalle e nel combinare istintivamente siano fondamentali per il funzionamento dell’Inter di Conte, indipendentemente dall’apporto realizzativo. Semplicemente, Lautaro dà una propria interpretazione al ruolo, tarata sulle sue caratteristiche, che in un sistema come quello di Conte, in cui le punte sono particolarmente responsabilizzate in ogni situazione di gioco, specialmente la rifinitura, finisce – oltre che esaltare molte delle sue doti – per mettere in evidenza la sua mancanza più grossa: la capacità di fare assist.

Nemmeno Romelu Lukaku, che a 27 anni ha raggiunto il proprio apice in carriera per completezza e importanza nel sistema di una squadra grazie alle profonde scalpellate date da Antonio da Lecce al suo profilo tecnico, riesce a colmare quel bisogno atavico di rifinitura che l’attacco dell’Inter si porta dietro dal mancato acquisto di Džeko. Ci ha però messo una pezza considerevole, assimilando al meglio il lavoro spalle alla porta che il suo allenatore gli ha chiesto, dopo anni trascorsi a stendere in conduzione chiunque passasse sui suoi binari. Lukaku concede alla sua squadra una soluzione costante per i lanci lunghi, costringendo a farsi scalare come una montagna dal difensore che prova a farlo retrocedere: le sue sponde sono grezze se paragonate a quelle degli specialisti ma le azioni dell’Inter si incanalano nella giusta direzione quando un compagno raccoglie palla dal belga o quando, meglio ancora, lo stesso Lukaku si gira e, di forza, fa valere la sua miglior dote, la progressione palla al piede. In Italia, Big Rom è senz’altro diventato un punto di riferimento avanzato anche per lo sviluppo di gioco, così affidabile da diventare a tratti persino più che irrinunciabile: necessario.

Il compromesso

Il tecnico salentino ha insomma cercato di riforgiare i due attaccanti per adattarli alla sua filosofia di gioco e ai compiti che aveva immaginato per loro. Dal canto loro, i due giocatori si sono sforzati moltissimo per riuscire a sviluppare un gioco che esaltasse entrambi e in cui non si pestassero i piedi a vicenda. Hanno imparato a conoscersi e a cercare sempre la compensazione reciproca: quando uno scende a dare la sponda per i compagni, l’altro tendenzialmente cerca di attaccare lo spazio alle sue spalle, con il classico movimento in compensazione tra prima e seconda punta. Allo stesso modo, forzandosi a giocare in maniera più associativa di quanto non suggerirebbe il loro DNA, sono diventati piuttosto bravi a cercarsi in spazi stretti tentando triangolazioni veloci che possano permettere di andare in porta combinando tra loro.

Gli scambi nello stretto in velocità, quando gli si lascia spazio da attaccare alle spalle dei diretti marcatori, è una delle situazioni più complicate da difendere contro la LuLa

È nelle fasi più lente e impacciate di attacco posizionale che emerge ancora la loro sovrapponibilità: quando l’Inter attacca in trenta o quaranta metri, muovendo lentamente palla da una fascia all’altra alla ricerca di uno sbocco, non è raro vederli entrambi tentare di allungare le difese avversarie minacciando uno scatto in profondità, finendo però per privare i compagni della possibilità di un appoggio centrale su di loro. Allo stesso modo, capita che scendano contemporaneamente per fornire uno scarico, congestionando il centro del campo senza però poi trovare tempo e spazio per un suggerimento in verticale. Quando riescono a girarsi uscendo da situazioni di traffico, entrambi tendono a forzare giocate verticali per il compagno, anche quando sono praticamente impossibili.

Ciò nonostante, gli sforzi profusi dalle due punte nerazzurre sono stati enormi e i risultati si sono visti ampiamente. Era difficile ipotizzare fin da subito che la coppia – date le premesse così disfunzionali – potesse avere anche solo metà dell’efficacia e dell’affiatamento che ha dimostrato, frutto dell’intelligenza, dell’adattabilità, dell’abnegazione e della professionalità di entrambi.

Lukaku ha certamente un corpo che viene dal programma del supersoldato che ha generato Capitan America, probabilmente, ma anche il suo cervello non è da meno: il centravanti ha infatti raccontato di aver iniziato a pensare alla compatibilità con Lautaro ancora prima di arrivare all’Inter, durante le fasi avanzate della trattativa. Ragionamenti che, insieme con l’ossessione di Conte per far combinare le sue punte, sono sfociati nella continua ricerca di dialogo sul campo tra i due avanti nerazzurri. Il giocatore che raccoglie il suggerimento di Romelu, quando si trova a ripulire palloni, è quasi sempre proprio Lautaro: il suo compito, nelle fasi più disordinate, in transizione o quando si aprono degli spazi, è sostanzialmente quello di “fare accadere qualcosa” con il suo talento, la sua voglia di ingaggiare duelli, oppure – come detto in precedenza – distribuire palla rapidamente, di prima, senza particolari invenzioni. In più, l’argentino “ricambia” le sponde del compagno con uno sforzo ulteriore in non possesso: è più spesso l’ex Racing a dettare i tempi del pressing alto rispetto al compagno e a coprire gli spazi più ampi, un po’ perché più naturalmente portato a contendere il pallone e a esercitare pressione sull’avversario, un po’ per preservare il più possibile il belga dagli scatti per accorciare sul portatore avversario.

La narrazione dell’intesa tra Lukaku e Lautaro poggia prevalentemente su questo tipo di contatto: scambi con spazi a disposizione, specialmente in transizione – dove entrambi hanno argomenti di un certo peso a livello individuale – oppure il passaggio del testimone dopo che uno dei due (più spesso il belga), ha vinto un duello con un marcatore. Questo forse è il paradosso più grande del loro modo di giocare: quella che viene raccontata come una complementarità, una forma di affinità tecnica, è, in realtà, un grosso compromesso.

Un’altra modalità di compromesso per coesistere efficacemente è nel sincronismo dei movimenti senza palla tesi a creare spazio al compagno

Non si tratta, come si diceva una volta quando due bomber molto prolifici si ritrovavano a dividere il campo dopo aver fatto le cose migliori finalizzatori di sistema, di “aver imparato che esiste anche l’altro” o il logoro e loffio concetto di “generosità” (nel senso di disposizione interiore all’assist invece che al tiro). Non c’entra nulla nemmeno il cliché giornalistico della disposizione al sacrificio per dividere i cross e le occasioni: Lukaku e Lautaro hanno dovuto cambiare significativamente il loro modo di interpretare il ruolo e la partita per arrivare a una coesistenza efficace.

Il problema della rifinitura

Nonostante i progressi di entrambi, però, nessuno dei due ha sviluppato – almeno per ora – la capacità di incidere con l’ultimo passaggio. Lautaro ha sì un ottimo istinto associativo durante le transizioni ad alto ritmo quando la squadra si distende rapidamente in avanti mentre Lukaku non ha paura di provare l’assist tanto in situazione di transizione, quanto in fase di attacco posizionale. Sono tracce, frammenti incoraggianti, schegge di giocate decisive in fase di rifinitura che talvolta possono funzionare al punto da essere decisive nella singola partita ma che rimangono, almeno per ora, troppo estemporanee per poter pensare di costruirci dei meccanismi codificati.

Per rendere davvero al massimo, l’Inter di Conte deve andare a mille e anche Lautaro, in particolare, deve andare a mille: come in un gioco di scatole cinesi, il suo stesso istinto associativo si attiva quando si va a mille. Il dialogo dell’argentino con i compagni si sviluppa su linee semplici, quasi scolastiche, quando la squadra è sotto ritmo; in situazioni di maggiore intensità trova soluzioni più complesse (e talvolta scenografiche) come il suo classico cambio di gioco di prima intenzione sull’esterno o sulla mezzala che imboccano in velocità la fascia opposta. Ancora una volta, Lautaro fa la differenza quando può giocare sul suo terreno preferito. Molto diversa è la situazione quando gli si chiede di abbassarsi tra le linee e ricevere palloni con l’obiettivo di costruire gioco, di trovare una linea di passaggio e non soltanto di eseguire rapidamente e con precisione quella più immediata. Fermarsi per guardarsi intorno e verticalizzare al momento giusto sono modi di trattare il tempo e lo spazio che, in questo momento della sua carriera, ancora non possiede. S’è detto di come, al Racing Avellaneda, fosse Lisandro López a occuparsi della rifinitura, grazie alle sue eccellenti doti nel conservare il pallone, fare pause e associarsi con precisione e intelligenza con i compagni. Nel complesso, né il Toro né Lukaku possono essere considerati degli assistman affidabili al di là delle sponde in area, perlopiù aeree.

Il Lautaro che distribuisce palla di prima d’istinto è incredibilmente più bravo a trovare buone linee di passaggio rispetto al Lautaro fronte alla porta con tempo per ragionare a disposizione

Nel sistema di Conte, questo è un vulnus da non sottovalutare. Le combinazioni nello stretto tra gli attaccanti sono un marchio di fabbrica dell’allenatore leccese e, in quanto tale, sono state “importate” anche all’Inter, com’era peraltro ovvio che succedesse. Tant’è che, come si diceva poc’anzi, anche Lautaro e Lukaku cercano spesso il dialogo: se in transizione tutto sommato se la cavano più che discretamente, in situazioni più statiche e contro dei blocchi difensivi bassi ben organizzati, nessuno dei due è sistematicamente in grado di trovare la giocata sopra media che può mettere il compagno in condizione di trovarsi solo di fronte al portiere avversario. A differenza delle coppie che ha allenato con successo in passato, le due punte titolari che Conte ha trovato all’Inter non avevano – e non hanno tuttora – spiccate caratteristiche di playmaking, anzi.

È sicuramente vero che se la squadra riuscisse ad avere sempre la stessa intensità nell’aggredire alti gli avversari e accorciare il campo con rapidissime transizioni che portano tanti uomini oltre la linea della palla, le capacità di fare assist delle punte passerebbero tranquillamente in secondo piano: il recupero avanzato della sfera aprirebbe spazi facili da attaccare anche senza essere dei maghi dell’ultimo passaggio. A ritmi più blandi e in fase di attacco posizionale contro blocchi bassi ben organizzati, i problemi di costruzione della squadra emergono in maniera nettissima.

Questo, se vogliamo, è il difetto principale dell’Inter di questo biennio, il più grave, nonché quello che Conte non ha ancora saputo risolvere davvero.

Lautaro, pur essendo poco abile in rifinitura, gioca grandi segmenti di partita lontano dalla porta, sacrificandosi in una sorta di interminabile duello. Lukaku, da sempre re della transizione, ha dovuto applicarsi seriamente nel gioco spalle alla porta, l’unica fonte di “pausa” che una squadra povera di rifinitura (complici le lunghe assenze, per motivi diversi, di Sensi, Sánchez ed Eriksen) e talvolta carente nello sviluppo, può permettersi regolarmente. Lautaro e Lukaku, quindi, invece di compiere un lavoro associativo che per caratteristiche non sono in grado di sostenere, lo sostituiscono mettendo al servizio della squadra la loro abilità – declinata in modi differenti – di vincere duelli.

Vincere i duelli è decisamente ciò che riesce meglio agli attaccanti nerazzurri. A parte fare gol, chiaramente

È una tendenza facilmente verificabile sul campo. Quando le avversarie concedono pochi spazi, costringendo l’Inter a lunghi e logoranti attacchi posizionali, difficilmente i due centravanti riescono a fraseggiare fra loro nello stretto in modo da generare un vantaggio. Entrambi provano a uscire dall’area assediata ma – per quanto Lautaro abbia più strumenti per muoversi nel traffico di un Lukaku poco agile e spesso costretto a portare all’estremo il duello spalle alla porta – nessuno dei due, ancora una volta, possiede l’assist risolutivo o le doti per lavorare con il fraseggio la retroguardia arroccata.

Come si arriva al lancio lungo ossessivo

Con l’infortunio di Sensi di novembre 2019, l’Inter ha perso la capacità di attaccare in maniera brillante anche in fasi di gioco in cui non esercitava aggressione alta e riaggressione feroce. Il forfait obbligato del centrocampista ex Sassuolo ha privato i nerazzurri di gran parte della propria imprevedibilità, di creatività e di fantasia nella gestione di palla, soprattutto in attacco posizionale (ma non solo: anche lo sviluppo delle transizioni aveva più fluidità, con Sensi in campo). Insieme con le soluzioni offensive, la Beneamata ha perso anche di efficacia. A oggi, apparentemente, per sempre e senza rimedio, tanto che il buon periodo di forma attualmente in corsa poggia le sue solide basi su fasi di difesa posizionale attenta e pressing alto ad altissima intensità, con il radar di gioco costantemente alla ricerca di transizioni efficaci.

Da questa incertezza degli attacchi posizionali discendono tanti dei problemi l’Inter ha affrontato nei suoi periodi peggiori e che potrebbero ripresentarsi pure in futuro: l’iperresponsabilizzazione di Barella in fase di creazione di gioco (che porta a spremere il talento sardo per fargli fare una cosa non necessariamente sua), un crossing game più insistito e, soprattutto, la ricerca ossessiva della palla lunga su Lukaku (e, in misura minore, Lautaro) nell’attesa e nella speranza che il belga o l’argentino ripuliscano il possesso in maniera tale da ricavarne un’azione pericolosa anche in evidentissima inferiorità numerica e senza sostegno senza palla dei compagni. Un ritornello visto spessissimo nel 2020 che quasi aveva portato a dimenticare il periodo in cui la squadra nerazzurra riusciva ad attaccare in diversi modi nel corso di una stessa partita.

L’enorme mole di lancioni che Lukaku e Lautaro si sono trovati (e ancora oggi si trovano) a dover gestire, spesso in assenza di un supporto credibile da parte degli esterni e, più colpevolmente, delle mezzali, forza le due punte a cercare altrettanto ossessivamente il fraseggio tra loro, costringendo sistematicamente uno dei due a cercare l’assist per il compagno. La necessità di forzare la giocata in questo modo ha spesso vanificato il pur buon lavoro preliminare della coppia, ormai prossima a un master ad honorem nel campo della trasformazione delle pallacce orrende che arrivano da dietro in potenziali situazioni pericolose ma ancora poco incline a rifinire i palloni che, pure, ripulisce bene.

Il problema è sempre quello: nessuno dei due possiede la scintilla creativa necessaria per fare un ultimo passaggio che si riveli efficace. Certo, ci sono dei precedenti in cui ce l’hanno anche fatta ma, ancora, quelle sono situazioni che vanno considerate eccezione e non regola. A Lukaku manca spesso la sensibilità tecnica della giocata, problema che nella gran parte dei casi vanifica pur buone letture situazionali, così come si nota ancora una grande fatica nel leggere l’azione in un modo diverso da quello che gli risulta più istintivo e familiare; Lautaro non ha quasi mai la lucidità necessaria per vedere in anticipo come si svolgerà l’azione e tende a forzare scelte impossibili quando si trova chiuso in un cul de sac.

Entrambi sono attaccanti purissimi: la soluzione privilegiata resta sempre e comunque la conclusione, nonostante la vocazione generosa di Lukaku e gli sforzi in associazione di Lautaro. Va anche sottolineato che, al netto del fatto che sia una giocata poco nelle loro corde, i due attaccanti nerazzurri arrivano al dunque sfiancati dal lavoro preliminare di costruzione dell’occasione e, in quel momento, la loro capacità di ragionamento – per giunta da esercitare in maniera opposta al loro istinto – è quella che è.

Una luce in fondo al tunnel?

Se si parla invece di giocate risolutive, l’Inter ha a disposizione un’autentica eccellenza, nel campo: si tratta ovviamente di Alexis Sánchez. El niño maravilla ha messo in evidenza nei momenti troppo rari in cui è stato in campo, specialmente a inizio stagione, la sua preziosissima unicità all’interno della rosa: l’assist a innescare l’inserimento in area di Hakimi durante l’assedio di Inter-Fiorentina, replicato contro il Benevento e contro il Torino, è stato l’esempio di quanto sia indispensabile, nel sistema offensivo di Conte – ma più in generale, in una squadra chiamata al dominio della grande maggioranza, per non dire della totalità delle partite – avere attaccanti in grado di rifinire, trovare l’ultimo passaggio, ma anche rendere più agevole, ragionata e meno frenetica la risalita del campo.

Forse nemmeno l’Inter sa quanto bisogno avrebbe avuto/avrà/ha/aveva del miglior Alexis

Non è certo un caso che, nelle gare in cui Sánchez ha affiancato Lukaku, il belga si sia potuto limitare a intervenire soltanto per finalizzare, invece che caricarsi sulle spalle tutto il peso della fase offensiva nerazzurra, come il titano Atlante.

Il fatto che la miglior coppia d’attacco dell’Inter, per complementarità, capacità di generare situazioni pericolose e costruire attacchi posizionali sia quella che prevede Sánchez in campo, è un altro grande paradosso di una squadra che ha costruito le proprie fortune sul rendimento mostruoso dei due centravanti titolari: Lukaku e Lautaro formano una coppia con diversi difetti strutturali, con un’intesa autentica ma fondata su compromessi più che su un’effettiva affinità tecnica.

Osando un po’, si potrebbe dire che soltanto rompendo questa coppia a beneficio del cileno si possono superare le debolezze più grosse dell’Inter, quelle debolezze che emergono quando gli spazi si chiudono, quando i duelli vinti diminuiscono o semplicemente non bastano. Un’altra via, quella in voga più di recente col reintegro di Eriksen in pianta stabile tra i titolari, è chiaramente l’inserimento di un tassello a centrocampo in grado di rifinire.

Nonostante tutto, Lukaku e Lautaro hanno saputo formare una coppia in grado di determinare il funzionamento della squadra, di sostenere l’enorme sollecitazione a cui sono sottoposte le punte di Conte e di garantire un rendimento complessivamente costante, di fatto senza poter mai tirare il fiato. Lo hanno fatto in maniera controintuitiva, come chi butta giù una porta quando non riesce ad aprirla.

Il futuro

Se l’Inter vuole crescere ulteriormente, il prossimo salto evolutivo passerà obbligatoriamente dai modi che Conte troverà – nel prosieguo della stagione e, in caso rimanga a Milano, nelle prossime stagioni – per risolvere il problema della creazione di tiri puliti quando si tratta di scardinare un blocco basso ben organizzato. Il tentativo di inserimento di un pezzo in più sulla scacchiera è la prima ipotesi: in quest’ottica, possiamo guardare al rilancio di Eriksen tra i titolari nel corso di questo 2021, così come un minutaggio più corposo per Sánchez potrebbe essere un’altra opzione.

Un’altra via, invece, è rappresentata da un’ulteriore crescita delle punte titolari, un progresso che porti almeno uno tra Lautaro e Lukaku a sviluppare la capacità di vedere, interpretare e cucire le situazioni di gioco secondo la logica del rifinitore. Si tratterebbe di uno sviluppo enorme, complesso e laborioso per cui non basterebbe genericamente “allenarsi” ma anche fare un passo in più (più di lato che in avanti, probabilmente) dal punto di vista della gestione del gioco. Non sarebbe l’aggiunta di una skill in più ma proprio di un’intera dimensione al modo in cui i due centravanti nerazzurri interpretano le partite.

Grandi (?) speranze per il futuro

Attualmente, tra i due, sembrerebbe che sia Lukaku più predisposto a questo genere di trasformazione: l’inclinazione situazionale all’assist del gigante belga si sta lentamente trasformando in una tendenza via via più netta a tentare la giocata risolutiva in sede di ultimo passaggio anche in fasi di gioco non ad alto ritmo. Può benissimo essere che lo sviluppo in questo senso dell’ex Everton e Manchester United si fermi a questo punto e che oltre non possa andare ma, nel caso in cui ci fosse altro margine di crescita, tornerebbe utile quel modo di dire inglese che indica nel cielo l’unico limite possibile.

scritto con Federico Raso

Leave a Comment